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Le Salite del Giro d'Italia 2022

BLOCKHAUS

Un brigante belga sul Blockhaus

Questa salita il cui nome suggerisce a prima vista scenari germanici, si trova in realtà quasi perfettamente al centro dell’Italia, nel massiccio della Maiella, in Abruzzo.

Pare che il termine “Blockhaus”  – in tedesco letteralmente “casa di sassi” – sia debba a un comandante militare di origine austriaca che si trovava con un plotone di bersaglieri sulla cima della montagna, dove era costruito un fortino di pietra, con il compito di contrastare il brigantaggio nei primi anni dopo l’unità d’Italia.
Non a caso nelle vicinanze è tuttora visibile la “Tavola dei Briganti” un ampio lastricato di rocce dove pastori e briganti lasciarono incisi i loro nomi e i loro pensieri.
La più nota di queste scritte è datata 1867 e recita: “nel 1820 nacque Vittorio Emanuele II re d’Italia. Prima il ’60 era il regno dei fiori ora è il regno della miseria“.
Il Blockhaus esordì al Giro d’Italia esattamente cento anni dopo, il 31 maggio 1967, e quel giorno lassù fu scritta un’altra pagina molto nota, una delle più importanti nella storia del ciclismo.
A inciderla fu un ragazzo di nemmeno 22 anni, nativo di Tielt-Winge, nelle Fiandre, che nel palmares aveva già due Milano-Sanremo ma era alla sua prima partecipazione al Giro.
Alla partenza della tappa, la Caserta-Blockhaus, i favoriti erano la Maglia Rosa José Perez, assieme ad Anquetil, Motta, Gimondi, Adorni, Zilioli e infine l’idolo locale, il camoscio d’abruzzo, Vito Taccone.
Il primo a muoversi fu proprio Taccone che, spinto dall’affetto della moltitudine dei suoi conterranei, ci provò in solitaria e lontano dal traguardo, dovendosi però arrendere a circa 13 chilometri dalla cima.
La corsa proseguì molto tattica, con i migliori che continuarono a studiarsi senza attaccare e senza fare selezione.
A 2000 metri dallo striscione d’arrivo finalmente partirono in due, Schiavon e Zilioli, e quando già sembrava fossero loro a giocarsi la vittoria, tra lo stupore generale uscì dal gruppo l’uomo meno atteso, quel ragazzo belga di neanche 22 anni.
Riprese gli attaccanti, scattò intorno all’ultimo chilometro e più nessuno ebbe la forza di rispondere.
Vinse con 10” su Zilioli e sulla Maglia Rosa Perez.
Quel giorno molti dissero: “Sul Blockhaus ha vinto un velocista”, come a rimarcare l’attendismo degli altri, degli scalatori, dei favoriti.
Ancora non si immaginavano di aver appena assistito a qualcosa che avrebbe cambiato il ciclismo per sempre.
Non sapevano, in quel momento, che il ragazzo che aveva appena inciso il proprio nome sulla cima del Blockhaus sarebbe diventato il più grande corridore di tutti i tempi: Eddy Merckx.

MORTIROLO

Mortirolo – una vocazione battagliera

Grazie alla sua posizione strategica tra la val Camonica e la Valtellina, il Passo del Mortirolo è un luogo di battaglie da molto prima del 3 giugno 1990, quando fece la sua apparizione al Giro d’Italia.
Leggenda vuole infatti che il nome derivi da un cruento combattimento avvenuto lassù nel 773 d.c., quando Carlo Magno si scontrò con le truppe longobarde già reduci dalla sconfitta di Pavia.
L’esercito carolingio li inseguì e dopo averli scovati nei pressi del valico li sbaragliò lasciando sul terreno centinaia di morti. Da qui “Mortarolo”, divenuto poi nei secoli “Mortirolo”.
Ma questa, si diceva, è una leggenda.
La realtà è che il toponimo viene probabilmente dalle parole “mortèra” o “mortarium” che descriverebbero la presenza di uno stagno o la forma concava che si trova in cima al passo.
Ciò che invece non è leggenda sono gli scontri che ci furono tra il febbraio e il maggio del 1945 fra i partigiani e nazifascisti, ritenuti dai diversi storici come le più grandi battaglie campali sostenute dalla Resistenza italiana.
Arriviamo quindi ai giorni nostri, a quel 3 giugno 1990 che diede inizio alla storia ciclistica della salita.
Quel giorno si scalava il versante di Edolo e il primo a transitare in cima fu il venezuelano Leonardo Sierra, che conquistò anche la tappa che prevedeva l’arrivo ad
Il Mortirolo parve da subito cosa buona e giusta, perché venne riproposto già l’anno successivo, stavolta da Mazzo, dal versante valtellinese che divenne poi la via “classica”: 12,5 km al 10,5% di pendenza media, con punte al 20%.
Fanno così alcune salite.
Fino al giorno prima sono solo strade sconosciute perse chissà dove, e una volta percorse stregano immediatamente organizzatori, corridori e soprattutto tifosi: così è stato col il Muro di Sormano, così pure con lo Zoncolan.
Poi venne il ’94, l’anno della definitiva consacrazione del Mortirolo e di Marco Pantani: due storie più che parallele, quasi gemelle.
Il 5 giugno si correva la Merano-Aprica, con in programma nell’ordine Stelvio, Mortirolo e Santa Cristina.
Il Pirata, allora solo ventiquattrenne, attaccò approfittando delle terribili pendenze della seconda salita, ad oltre 60 km dal traguardo.
Staccò Indurain, Bugno, Chiappucci e la Maglia Rosa Berzin transitando solitario in vetta, attese Indurain nel tratto di pianura prima dell’ultima ascesa dove scattò nuovamente, stavolta in modo definitivo, andandosi a prendere la vittoria di tappa e il secondo posto in classifica generale.
Per ricordare quell’impresa nel 2006 è stata posta una scultura, all’ottavo chilometro del Mortirolo.
Raffigura Pantani nel momento di uno dei suoi scatti, con le sue solite mani basse sul manubrio, la testa voltata a scrutare gli avversari.
Guarda indietro e ciò che vede sono facce di avversari sconfitti.
A ricordarci che quel giorno – in un luogo da oltre mille anni teatro di grandi battaglie – il Pirata ha trovato molto più di una vittoria: ha trovato una vocazione, un destino, ha trovato sé stesso.

SANTA CRISTINA

Santa Cristina – l’aereo e il carrarmato

Parlare del Passo (o Valico) di Santa Cristina è impossibile senza parlare di nuovo di quella tappa, la Merano-Aprica del 1994.
Perché fu lì che quella salita esordì al Giro d’Italia, il giorno cioè in cui il giovane e quasi sconosciuto Marco Pantani partì sul Mortirolo staccando tutti i migliori.
Nel successivo falsopiano l’ammiraglia gli suggerì di attendere Indurain e Rodriguez, poco distanti, che lo avrebbero potuto aiutare prima dell’ultima asperità, proprio il Santa Cristina.
Pantani ubbidì e i tre andarono di comune accordo, con Indurain che rese in testa i primi metri dell’ascesa. Provò a giocarsi l’unica carta che sapeva di avere: tenere un ritmo più alto possibile per scoraggiare gli scatti del giovane compagno di fuga. O almeno ritardarli il più possibile.
Rivedendo il video di quell’ascesa c’è qualcosa di commovente nel tentativo di Indurain, nella lotta tra lui e il Pirata, così differenti in bici come fossero due diversi modi di stare al mondo.
Uno alto, imponente, un cronoman puro che si difende in salita grazie alla regolarità e all’esperienza, ma che teme gli scatti e i cambi di ritmo.
L’altro piccolo, minuto, in balìa del vento quando la strada è in pianura, ma che appena le pendenze si fanno più dure, quando cioè tutti gli altri cercano ossigeno e gambe senza trovarli, lui entra come d’incanto nel proprio habitat naturale.
La differenza che c’è tra un carrarmato e un aereo.
Eppure in quel momento, nelle prime rampe del Passo (o Valico) di Santa Caterina, l’aereo e il carrarmato salgono sono ancora appaiati, contro ogni logica fisica, contro ogni ragionevolezza, in uno di quegli incantesimi che solo il ciclismo riesce qualche volta a fare al mondo.
Ma, come sempre, gli incantesimi non durano a lungo e dopo un paio di chilometri irruppe con forza la realtà.
Pantani affiancò Indurain e poi scattò, senza guardarsi indietro nemmeno una volta.
L’aereo prese il volo, veloce, leggero, e il carrarmato dovette arrendersi.
Il divario tra i due salì ad ogni metro d’asfalto, si dilatò ad ogni tornante e allo scollinamento fu quantificato in 3’19’’.
Un abisso, soprattutto se si considera che venne scavato in meno di cinque chilometri.
Nella breve discesa prima del traguardo di Aprica il Pirata guadagnò ancora qualcosa, andando a vincere la tappa con 3’30’’ su Indurain e 4’06’’ sulla Maglia Rosa Berzin, e scalzando lo spagnolo al 2° posto della classifica generale.
Fu questa dunque la prima volta del Passo (o Valico) di Santa Cristina al Giro d’Italia.
Una salita che ha avuto la fortuna di esordire nel grande ciclismo in quella tappa, e che proprio per questo ci ricorderemo per sempre.

KOLOVRAT

Kolovrat – come un segno di pace

L’arrivo di questa salita, inedita per il Giro d’Italia, è posto ai 1162 metri del Kolovrat, una catena montuosa situata nell’estrema parte orientale del Friuli-Venezia Giulia, al confine con la Slovenia.
La partenza invece è al di là del confine, in un paesino sulle sponde dell’Isonzo il cui nome sloveno è Kobarid.
Ma forse è più nota la sua denominazione italiana: Caporetto.
La stessa Caporetto teatro della battaglia che nell’ottobre 1917 portò le truppe italiane ad una lunghissima ritirata arrestatasi poi solo sulla linea del Piave.
Il Kolovrat in quei mesi era area di competenza della 2ª Armata che vi aveva realizzato un vasto ed articolato sistema difensivo, dal momento che i suoi rilievi costituivano l’estrema difesa per impedire la penetrazione del nemico nella pianura friulana
Tra gli ufficiali tedeschi che diedero il contributo maggiore alla caduta delle nostre linee c’era Erwin Rommel, la futura Volpe del Deserto, allora giovane tenente.
Il 25 ottobre approfittando del fattore sorpresa compì l’azione che portò alla conquista di tutta la catena del Kolovrat e alla cattura di migliaia di prigionieri.
Scrisse nel suo diario che lo scontro principale di quei giorni lo ebbe con i bersaglieri italiani nei dintorni di Livek (Luico, in italiano), una piccola frazione a sud di Caporetto.
Per Livek passeranno anche i corridori, lo incontreranno giusto a metà della salita e sarà l’unico breve tratto pedalabile di tutti i 12 chilometri, altrimenti durissimi.
Sempre da Livek Rommel ripartì il giorno successivo, e questa volta senza quasi combattere fece suo anche il monte Matajur.
A quel punto davanti a lui si apriva la pianura friulana da dove avrebbe potuto facilmente raggiungere Cividale, poi Udine, poi chissà.
Invece venne mandato a nord, a sfondare verso la valle del Piave, e lo fece usando un mezzo molto utilizzato allora anche in guerra: la bici. Anche in quell’occasione, ce la farà.
Annotò di nuovo nel suo diario: “A cavallo e in bicicletta come siamo raggiungiamo presto i primi italiani in fuga. Lo scontro non ha luogo. Basta gridare loro di arrendersi…”
Dopo 105 anni da quegli avvenimenti il Giro d’Italia riporta la bicicletta lassù, tra Caporetto e il Kolovrat.
Ma stavolta senza eserciti, senza sanguinose disfatte né cruenti eroismi.
Solo con l’intento per cui era stata inventata: un meraviglioso gioco che unisce tutti, come un segno di pace.

PASSO FEDAIA

Passo Fedaia – un altro regalo

La prima volta che il Giro d’Italia affrontò il Passo Fedaia fu nel 1970, il 5 giugno.
Ci sarebbe dovuto arrivare già l’anno precedente, nella tappa Trento-Malga Ciapela, ma l’esordio fu bloccato dal maltempo, neve e vento sui Passi, pioggia e grandine nel fondovalle, frazione annullata.
Ma Torriani – che nel ‘53 aveva fatto scoprire alla Corsa Rosa lo Stelvio, nel ‘60 il Gavia – ci teneva particolarmente a quell’arrivo ai piedi della Marmolada, la Regina delle Dolomiti.
Tanto che dodici mesi esatti dopo la Carovana era di nuovo lì, e stavolta ad aspettarla c’era una bella giornata di sole.
Merckx indossava la Maglia Rosa, andò in fuga il suo compagno Zilioli che però venne raggiunto sul finale e si giocarono la tappa in sei, Gimondi, Merckx, Bitossi, Dancelli, Vandenbossche e Gosta Pettersson.
A vincere fu la Maglia Ciclamino, Michele Dancelli, con uno scatto ai cinquecento metri dall’arrivo.
E’ curioso però il fatto che quella prima volta in cui il Giro affrontò la Marmolada, il Fedaia non fu scalato davvero.
Furono sì percorsi i primi 9 chilometri, da Caprile a Malga Ciapela attraverso gli spettacolari Serrai di Sottoguda – uno stretto canyon scavato tra le rocce dal torrente Pettorina – ma per il Passo mancavano ancora 5 chilometri.
I più duri, i più selettivi, forse i 5000 metri più impegnativi di tutte le Dolomiti.
Appena dopo Malga Ciapela si svolta leggermente a destra e girata la curva la salita getta la maschera e mostra il suo volto più cattivo: prima un rettilineo di quasi tre chilometri con una pendenza media attorno al 12% e punte al 16, poi altri 2500 metro di tornanti sempre con pendenze in doppia cifra.
Torriani lo sapeva bene e decise che quel tratto se lo sarebbe tenuto per il futuro, come per centellinare la meraviglia un po’ per volta.
Successe infine nel 1975, nella penultima frazione del Giro, la Pordenone-Alleghe con in programma Staulanza, Colle Santa Lucia, Fedaia e Pordoi.
Quel giorno la Maglia Rosa Fausto Bertoglio andò in difficoltà proprio su quell’infernale rettilineo, ma riuscì comunque a difendere la Maglia Rosa dagli attacchi di Galdos e De Vlaeminck, che andò poi a vincere la tappa.
Ma chi vogliamo ricordare oggi è Giancarlo Polidori, passista marchigiano allora in forza alla Furzi.
Fu lui a transitare per primo ai 2057 metri del Passo Fedaia, a costeggiare il lago e a vedere con gli occhi di un corridore il ghiacciaio che si arrampica fino in cima alla Regina delle Dolomiti.
Fu il primo, cioè, a godere di quell’ennesimo regalo fatto da Vincenzo Torriani al Giro d’Italia e non solo – a tutto il ciclismo mondiale.

PASSO PORDOI

Passo Pordoi – alleanza e rivalità.

Le storie del Passo Pordoi e del Giro d’Italia sono oramai tanto collegate, intrecciate, sovrapposte nella memoria collettiva che quasi sembra impossibile ricordare quando s’incontrarono per la prima volta.
Eppure una data c’è, naturalmente, ed è il 5 giugno 1940. 17a frazione del Giro, Pieve di Cadore-Ortisei.
L’esordiente Coppi era partito da Milano come gregario di Bartali, ma tappa dopo tappa i ruoli si sono invertiti e quel giorno è Fausto ad indossare la Maglia Rosa, con Gino che corre in suo supporto.
I due vanno in fuga assieme e fanno subito il vuoto.
Sulle prime rampe del Pordoi però il giovane Coppi ha un momento di difficoltà, sembra voglia fermarsi, piuttosto che affrontare quell’ultima salita gettare la bici e salire in ammiraglia.
Bartali lo aspetta, lo aiuta, lo sprona, prende della neve e gliela butta addosso per farlo riprendere, e ce la fa. Scollina primo Bartali, che vince la tappa, mentre Coppi grazie all’esperienza di quel gregario di lusso mette definitivamente le mano sul Giro.
E già si capisce, già basterebbe quest’episodio per capire il legame tra il Pordoi e la Corsa Rosa: la crisi di Fausto proprio su quelle rampe, nell’anno della sua prima vittoria; l’inizio di un rapporto che diventerà poi il dualismo più acceso nella storia del ciclismo, e non solo.
Già basterebbe, ma di occasioni per rafforzare quel legame ce ne sono state poi molte altre, come ad esempio accadde il 12 giugno 1947.
Il Giro partiva da Pieve di Cadore per raggiungere Trento, 194 chilometri tra i monti Pallidi con il Falzarego e il Pordoi da scalare.
Quella volta in Maglia Rosa c’era Bartali.
Coppi, secondo, era staccato di 2’40’’.
Come sette anni prima era la 17a tappa, forse l’ultima utile per riscrivere la classifica.
Come sette anni prima i due se ne vanno presto e sul Falzarego sono già soli.
Lungo la salita però Ginettaccio ha un salto di catena, l’ex compagno di squadra ne approfitta e dà inizio ad una imprese che lo hanno reso celebre.
Scollina sul Falzarego da solo, guadagna nel fondovalle, ma è sul Pordoi che Coppi aumenta il proprio vantaggio in modo incolmabile per tutti, arrivando a Trento dopo 150 km di fuga solitaria con 4’24’’ dal secondo classificato, Magni.
E, ciò che più conta, sfilando definitivamente la Maglia Rosa a Bartali.
Dopo quel giorno il Passo Pordoi verrà affrontato dal Giro d’Italia altre 38 volte, di cui 4 come arrivo di tappa e 13 come Cima Coppi, diventando via via sempre più un punto fisso, un passaggio obbligato per corridori e appassionati – tanto che ora ci sembra quasi impossibile ricordare come e quando iniziò questa leggenda.
Ma ora lo sappiamo.
Tutto iniziò grazie all’alleanza e alla rivalità tra i due più grandi campioni della storia del nostro ciclismo.

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