Tappa 4: Piacenza – Sestola. La parola “Meo”
Quando ci si spinge verso Sestola, come su buona parte dell’Appenino tra l’Emilia e la Toscana, la parola “meo” assume un significato ben preciso. O, almeno, lo assumeva quando fare i carbonai, cioè abbattere e spezzettare i tronchi di decine di alberi, per poi bruciarli a fuoco lentissimo in cataste ricoperte di terra e zolle fino a renderli carbone, era una delle attività stagionali cui si dedicavano gli uomini di queste parti. Talvolta, raggiungendo altri luoghi ricchi di foreste: la vicina Toscana o la Corsica, isolandosi nei boschi per mesi.
Nessuna compagnia andava “alla macchia” senza un meo: un ragazzino, destinato a diventare egli stesso carbonaio in futuro. Era l’inizio di un mestiere massacrante, un faticoso apprendistato come guardiano della capanna, cambusiere e spesso persino capro espiatorio di tutta la fatica e le magagne altrui. Un’esperienza comune e traumatica per tutti gli addetti ai lavori, tanto da essere immortalata in una nenia, intonata nei rifugi di fortuna tra i boschi quando era impossibile lavorare: “Io d’arrivare in fondo non credéo/ Dio mi riguardi di rifarlo il meo”.
Ma a guardar bene, questi sono anche i luoghi del Meo con la maiuscola: Romeo Venturelli, da Sassostorno di Lama Mocogno, dintorni di Pavullo, pochi chilometri dalla vetta del Cimone, dove oggi sorge una delle maggiori stazioni sciistiche dell’Appennino, tra boschi in cui gli escursionisti hanno preso il posto dei carbonai. Venturelli era uno di quei corridori “che la ragione sommettono al talento”; nel suo caso un talento ciclistico cristallino, innegabile. Ancora dilettante, fu capace di rinunciare a un successo prestigioso perché quel giorno voleva vincere, sì, ma in volata, non per distacco. La mattana si svolse sotto un paio d’occhi d’eccezione: quelli di Fausto Coppi.