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Cronisti per un Giorno

25/10/2020

L’arrivo a Milano

Dalle aspre salite delle montagne alpine, per l’ultimo atto del Giro la carovana ha ripiegato sul-la pianura lombarda, giungendo sino al cuore del capoluogo. La partenza da Cernusco sul Navi-glio testimonia già in sé l’eccezionalità, nel bene e nel male, di quest’anno: Hindley e Hart, già iscritti nella storia, partono con un distacco talmente esiguo (ottantaquattro centesimi di vantag-gio per l’australiano).
Ma prima ancora che partisse l’ultima tappa, nella silenziosa notte meneghina, la città si muo-veva freneticamente, adattando l’intero tessuto urbano per dispiegare la miglior via ai corridori. Una tenace volontà, ha permesso di fissare l’arrivo del Giro nella città, davanti a quella cattedrale dalla quale, accostando l’orecchio, si sente ancora echeggiare la potente voce di Bocelli che te-stimonia la solitudine d’una nazione.
Una prima sfida era quella dell’organizzazione degli spettatori. Come chiedere, infatti, ad una popolazione così affezionata al Giro per lunga tradizione, di assistere alla tappa da casa, davanti ad uno schermo così incolore? Ma la richiesta è stata fatta, a buona ragione; accompagnandola a strategie pratiche, come quella di chiudere l’intera piazza del Duomo, nella quale si temeva di vedere accalcata un’ipotetica fiumana di spettatori, o ancora quella di oscurare con dei teli le curve conclusive della pista, per evitare assembramenti sugli ultimi tratti.
Così la città si è svegliata già immersa nella sua frenesia proverbiale, gestita da un dispiega-mento non convenzionale di vigili che ne orientavano il traffico spesato. Nonostante ogni diretti-va, però, qualche sparuto spettatore si è fatto vedere, ai lati della pista, chinarsi all’altezza dei curvi corridori nel tentativo d’infondere un po’ della propria forza in quelle gambe svelte. E nel grigiore di questa giornata, così autunnale e tenue nelle tinte, fra gli scuri manti delle strade e dei cappotti degli astanti, a spiccare, d’improvviso, sono le lucenti cromature delle biciclette e delle tute degli atleti, spinti sempre più in là della ruota anteriore.
Ma, per poco più di un istante, dalla telecamera che seguiva i corridori per la diretta, si è visto bucare l’inquadratura dai colori autunnali, uno di quei tricolori che fino a qualche mese fa pende-vano dai nostri balconi, impugnato dalla piccola mano di una bambina che la agitava con quei movimenti un po’ impacciati tipici dei bambini. Non credo che l’occhio del corridore sia riuscito a cogliere quel frammento, che sicuramente deve essergli passato sotto vista per poco tempo; ma se, per puro caso, fosse riuscito, forse avrebbe visto anche lui, nell’agitare quella bandiera — probabilmente nemmeno della propria nazione — una spinta vigorosa in giorni che sembrano perdere tali incoraggiamenti. Non si tratta di epicità spicciola di atleti che lottano per una nazio-ne: puzzerebbe un po’ di retorica desueta. A mostrarsi, qui, è l’espressione di un popolo che cer-ca, attraverso un rito come quello di una corsa ciclistica, di alzare la testa dai tempi cupi che stiamo attraversando. Ma forse anche questa potrebbe sembrare retorica; forse, il miglior modo per ritornare (almeno con lo spirito, e con un po’ di sollievo) a quella normalità che tanto rassere-na i nostri cuori, è quello di osservare quegli elementi fuggitivi, che per poco non si scorgono nemmeno. Le luci delle macchine che riflettono il pavé dietro al loro atleta, quegli applausi vigo-rosi che seguono i corridori in curva, quei ciclisti amatoriali che si accalcano ancora col casco in testa a guardare i loro modelli… In tali piccoli frammenti di sguardi, possiamo osservare quanto di più grande vive nella tensione di questo evento: non la paura, che per il momento ha poca pre-sa, ma quella commovente spinta genuina che si prova nel tifare; tifare che non si riduce mai so-lo allo sport, ma tende a qualcosa di più grande, a una comunità di cui ci si sente parte è da cui si sente scorrere una nuova forza.

Andrea Alfonso
ISMC – Milano

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